3.
La classe politica
Infine, per valutare «con sapienza» i programmi occorre
guardare alle qualità morali e professionali della classe
politica, cui spetta la principale responsabilità nella realizzazione
del progetto. Ora, la incertezza maggiore delle prossime elezioni
riguarda appunto la scelta dei candidati. Da un lato, c’è
urgente bisogno di un profondo ricambio della classe politica, alla
luce anche delle collusioni mai del tutto eliminate (neppure dopo
Tangentopoli) tra mondo politico e mondo degli affari. D’altro
lato, però, avendo abolito il voto di preferenza, l’ultima
legge elettorale obbliga a votare solo i partiti, ai quali spetta
di compilare la lista dei candidati. È un problema che riguarda
tutti, sia la destra sia la sinistra. È evidente, infatti,
il rischio di ricadere nella partitocrazia, nel clientelismo e nel
centralismo democratico, vecchi vizi della Prima Repubblica. Perciò,
subito dopo le elezioni, bisognerà riprendere in maniera
approfondita il discorso sul rinnovamento della forma-partito, aprendosi
alla partecipazione diretta della società civile; in particolare,
nel centro-sinistra potrà essere ripresa la prospettiva del
partito unico, ma senza forzare i tempi e passando attraverso una
fase costituente che faccia maturare il necessario consenso della
base.
Nello stesso tempo, occorre che i cattolici riconsiderino seriamente
il problema della loro presenza politica. Dopo la fine della DC,
essi oggi militano politicamente in schieramenti diversi, ma non
hanno ancora sufficientemente chiarito il modo in cui porsi nel
contesto secolarizzato, laico e pluralistico della vita politica
odierna: come mediare «laicamente» i valori cristiani
e gli orientamenti della dottrina sociale della Chiesa, così
da renderli comprensibili e accettabili dagli uomini di buona volontà?
È necessario trovare una adeguata risposta a questa domanda
cruciale, se si vogliono evitare due gravi tentazioni della Chiesa
italiana di oggi.
La prima tentazione riguarda i fedeli laici. Stupisce che –
nel centro-destra – i cattolici abbiano approvato la legge
xenofoba Bossi-Fini sulla immigrazione, abbiano votato la devolution
mostrando di condividerne l’impostazione egoistica, non abbiano
avuto il coraggio di opporsi alla serie incredibile di leggi ad
personam. D’altra parte, stupisce che – nel centro-sinistra
– i cattolici siano pavidi ed esitanti in tema di tutela della
vita, di salvaguardia della famiglia, di libertà religiosa,
lasciando il campo all’iniziativa rumorosa e alle pretese
inaccettabili di gruppi minoritari della sinistra estrema e radicale.
La seconda tentazione riguarda invece la gerarchia. Di fronte alle
contraddizioni e alla timidezza dei cattolici impegnati sui due
fronti, da un lato c’è il rischio che i vescovi suppliscano
direttamente alla mancanza d’iniziativa dei fedeli laici,
fino al punto di suggerire scelte politiche concrete – ma
non è questa la loro missione –, con la conseguenza
che rinascano vecchie forme di anticlericalismo o si rialzino storici
steccati; d’altro lato c’è il rischio che, per
apparire equidistanti dagli opposti schieramenti, i vescovi evitino
di esprimersi sulla maggiore o minore coerenza dei programmi con
la dottrina sociale della Chiesa, mentre rientra nella loro missione
indicare le regole fondamentali della convivenza civile e giudicare
sul piano etico la «cultura» a cui si ispirano i diversi
programmi. Così ne soffre la profezia della Chiesa e si inducono
i fedeli a ritenere erroneamente che la scelta dell’uno o
dell’altro programma politico sia del tutto indifferente.
Concludendo, auspichiamo che il Convegno ecclesiale nazionale di
ottobre a Verona offra l’occasione propizia per affrontare
«con sapienza» e con parresia evangelica il discorso
sul rinnovamento della presenza politica dei cristiani, oggi chiamati
a una scelta decisiva: quale Italia vogliamo?
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